martedì, luglio 12, 2022

Ho aperto questo blog molti anni fa, ora sono una persona diversa, ho imparato molto, ho ancora molto da imparare ma redo sia giunto il momento di condividere, di confrontarsi, di mettere a disposizione di qualcosa di più grande l'esperienza che ho vissuto in questi 48 anni di vita.

Parto da questo, un concetto molto caro alla fisica quantistica, secondo cui quando una realtà viene osservata, automaticamente non è già più quella di prima: l'osservatore non è solo osservatore ma influisce su ciò che osserva e lo cambia!!

L'ho sperimentato, è una cosa meravigliosa!!

https://youtu.be/nqHDy8Y2ho4

https://www.neuroscienze.net/fisica-quantistica-e-cabala-ebraica/


Rifiutati di cadere

Rifiutati di cadere

Se non puoi rifiutarti di cadere,
rifiutati di restare a terra.
Se non puoi rifiutarti di stare a terra,
leva il tuo cuore verso il cielo
e come un accattone affamato,
chiedi che venga riempito,
e sarà riempito.
Puoi essere spinto giù.
Ti può essere impedito di risollevarti,
ma nessuno può impedirti
di levare il tuo cuore
verso il cielo... soltanto tu.
E' nel pieno della sofferenza
che tanto si fa chiaro.
Colui che dice che nulla di buono
da ciò venne, ancora non ascolta.

Clarissa Pinkola Estès

Combattere il vittimismo con la creatività

Combattere il vittimismo a tutti i costi!

Tutti abbiamo subito dei torti, delle mancanze, delle privazioni. Non siamo stati amati abbastanza, siamo stati traditi, abbandonati, feriti. Il ricordo di questi eventi è acuto, quando l’evento è temporalmente vicino; sfumato – ma non per questo meno condizionante – quando invece l’evento si perde nelle pieghe della memoria. Tuttavia, se rimaniamo aggrappati – consciamente o inconsciamente – alle ferite del passato, alle inevitabili mancanze degli altri, agli errori e ai torti subiti, non possiamo far altro che distruggere la nostra vita.
Il vittimismo è una forma molto celata e subdola di distruttività. Non è sempre così evidente ed esplicito: anzi spesso è socialmente tollerato e pericolosamente sottovalutato. Lo confondiamo con il nostro legittimo diritto a lamentarci per il torto realmente subito.
Con il tempo però, esso si insinua sottilmente nei progetti della nostra vita e sibila pensieri del tipo “tanto non sono capace … è troppo difficile … è troppo impegnativo … non sono all’altezza, … non ce la faccio, ecc.”. Se vi è capitato di avere questo tipo di pensieri, allora potreste essere inconsciamente ‘portatori’ di vittimismo.

Attenzione: non voglio affermare che nella vita tutto è possibile o che dovremmo essere in grado di realizzare qualsiasi progetto, ma sono convinto che la sfortuna non esiste. Il destino non è capriccioso come talvolta viene dipinto. Penso invece che la sorte ci ponga innanzi a delle sfide: quelle giuste per noi in quel determinato momento della nostra vita. Quello che noi chiamiamo ‘fato’ non è altro che la manifestazione esistenziale della spinta evolutiva insita in ogni essere umano (che alcuni chiamano Sé). Crescere ed evolversi spiritualmente non sono ‘optional’ riservati a pochi sofistici perditempo. Sono invece necessità di ogni essere vivente. Ogni volta che una persona interrompe la propria evoluzione interiore, il Sé comincia ad inviargli messaggi. Talvolta possono essere messaggi corporei come un disagio o una malattia, altre volte questi messaggi possono giungere dalle persone vicine o anche da eventi esterni. In ogni caso, la sorte ci pone di fronte a dei crocevia, ci costringe a prendere delle decisioni, ci obbliga a valutare una possibilità piuttosto che un’altra.

Queste decisioni non sempre sono facili, anzi, spesso non lo sono affatto. La vita non va sempre come noi vorremmo. Scegliere un partner, orientarsi lungo percorso universitario, generare un figlio, cambiare o perdere il lavoro, affrontare un’infermità, assistere impotenti alla scomparsa di una persona cara: sono solo alcuni dei momenti in cui dobbiamo prendere delle decisioni. Dobbiamo scegliere: affrontare la sfida e riorganizzare - pur dolorosamente - il nostro mondo interiore, oppure piangerci addosso e accusare il destino crudele. Ognuno di questi eventi rappresenta un’opportunità, anche se si presenta sotto le sembianze di una bomba (soltanto) distruttiva. Ognuno di questi eventi – se accolto, pur nella sua dolorosa devastazione – ci cambia, ci modifica, ci fa crescere.

Nessun uomo rimane uguale a ciò che era prima dopo aver fatto un figlio o dopo aver vissuto un lutto. Ognuno di questi eventi porta via un pezzo di noi e ci dona una parte di una nuova identità. Il punto è che a tutti piace l’idea - almeno in teoria - di evolvere spiritualmente, ma poi a nessuno piace il modo con cui il Sé ci propone le sfide della nostra esistenza. Siamo veloci nel compiacerci se facciamo venti minuti di meditazione trascendentale, ma poi siamo altrettanto rapidi a scagliarci contro un destino crudele ed ingiusto quando ci pone dinanzi ad una nuova prova (soprattutto se riteniamo di non averla deliberatamente scelta).

Ecco allora che il rischio del vittimismo si fa avanti e diventa realistico. La possibilità di crescere interiormente viene confusa con un torto con cui la sorte ci punisce e ci perseguita. Certo, non è facile, quando navighiamo nel dolore o nell’angoscia, scorgere che si tratta di un’opportunità evolutiva. E non c’è nulla di male se – in un primo momento – il dolore ci piega e ci soffoca. Ma il vittimismo è una malattia sottile, che si insinua subdolamente con un aspetto tanto innocente da sottovalutarla, da ritenerla erroneamente inoffensiva. Ed è allora, quando la nostra vigilanza si fa meno attenta, che rischiamo di venire contagiati da questa forma di distruttività, tutt’altro che innocua.

Ho avuto numerose conferme che le persone si auto-distruggono molto di più di quanto esteriormente possa apparire. Vi sono distruttività che spiccano evidenti come l’alcolismo o la droga: ma sono molto più diffuse le distruttività celate (socialmente tollerate e collettivamente negate) come la rabbia e la disistima verso se stessi, la mancanza di impegno nella realizzazione dei propri sogni, l’omissione dei propri talenti, la mancanza di fiducia, la perdita della speranza. Credo che molti siano i contagiati da queste forme di auto-distruttività. Non ci aiuta una diffusa cultura di retaggio medioevale, del dolore inteso come espiazione dei peccati e che ha fatto - di alcune forme di vittimismo – delle vere e proprie forme d’arte. Pensate, solo per fare un esempio, alle migliaia di canzonette dedicate agli innamorati abbandonati, traditi, lasciati. Ammantati di un eroismo nobile ma sfortunato, innalzati a simboli del vero amore, tanto più vero perché infelice e sciagurato. La figura biblica del ‘capro espiatorio’ non è mai tornata tanto in auge quanto in questo periodo storico. La vittima sacrificale è l’alibi dietro al quale si cela la mancanza di impegno nel realizzare la nostra vita, nell’affrontare umilmente le difficilissime sfide dell’esistenza. Fare la vittima è una modalità che illusoriamente ci restituisce il potere che abbiamo perduto: raccoglie consenso sociale e ci lusinga nel nostro orgoglio ferito.

Ritengo invece che sia una grave forma di auto-lesionismo, tanto più pericolosa quanto perché ritenuta tollerabile. Accade poi che – apparentemente senza alcun nesso logico – ci ritroviamo impantanati nella sfiducia in noi stessi e, senza rendercene conto, siamo strangolati dal peso della paura e del dolore. Seguendo il motto di Antonio Mercurio “Fate gli artisti, non fate le vittime!”, ritengo che l’unica risposta autentica al problema del dolore sia la Creatività. Non si tratta di illudersi, come nella favola di PollyAnna, che il mondo sia tutto bello, positivo e meraviglioso. Certamente esiste il dolore, esiste la guerra e la cattiveria umana è reale quanto la sua bontà. Ma se non vogliamo rischiare di perderci nel buco nero dell’angoscia, se non vogliamo rischiare di scivolare lungo il viscido sentiero della depressione, allora dobbiamo rimboccarci le maniche e – faticosamente, con amore e disciplina – dobbiamo imparare a creare, dobbiamo imparare a fare gli artisti della vita.

Così come l’artista plasma la materia (note, immagini, colore oppure il marmo), così l’artista della vita deve imparare a plasmare il proprio dolore, a lavorare sulla propria angoscia esistenziale proprio come se fosse materia da sagomare. Detto così, in due parole, sembra facile: ma non lo è affatto. La materia da plasmare in questo caso sono le nostre vecchie abitudini, i nostri piccoli piaceri negativi a cui non vogliamo rinunciare, il nostro orgoglio, il cinismo, l’egocentrismo, la critica e il giudizio, la competizione a tutti i costi, il bisogno di potere sull'altro, il bisogno di possedere l’altro, ecc. Si tratta di materiali che sono molto rigidi, cristallizzati dentro il nostro animo, davvero poco disponibili ad essere plasmati. La prima difficoltà è generata dal fatto che molti ritengono di essere immuni, che si tratti di argomenti che non li riguardano direttamente, ma che invece sicuramente riguardano gli altri. Oppure – nel migliore dei casi – riteniamo di esserne solo minimamente sfiorati.

La seconda difficoltà risiede nel fatto che – anche quando ci armiamo della migliore disposizione d’animo per sradicare le cause del nostro stesso male – esso sfugge alla nostra sorveglianza. È come se il meccanismo scattasse automaticamente, quasi fuori controllo. Capita così che ce ne accorgiamo sempre un attimo dopo: ascoltiamo le nostre parole solo dopo averle pronunciate, osserviamo e riflettiamo sulle nostre azioni solo dopo averle compiute, quasi fossimo soltanto spettatori piuttosto che attori. L’obiettivo dell’artista della vita – come dice Antonio Mercurio – è quello di creare Bellezza a partire dalla propria esistenza e per la propria esistenza e di quella degli altri. L’artista della vita deve digerire bocconi spinosi. Solo per fare qualche esempio: accettare l’imperfezione, accettare di sentirsi all’interno di un viaggio che è un cammino di conoscenza, accogliere il buio della notte con lo stesso amore come si accoglie la luce del sole, accettare che senza disciplina e senza tanti errori è difficile imparare davvero.

Imparare a creare bellezza è l’unica speranza per l’uomo del terzo millennio. La tecnologia ci aveva illuso che avrebbe risolto tutti i mali del mondo: invece ha migliorato la nostra quotidianità (e non è poco). Ma ha tradito le attese e ci ha lasciati altrettanto vuoti come l’uomo del Novecento, ancora sgomenti e senza fiato di fronte al mistero della vita e del cosmo.

Imparare a creare bellezza significa non rimanere immobili di fronte al dolore, non essere complici dell’angoscia, della bruttezza. È come se avessimo ricevuto un’educazione che dice: “se non sei perfetto, allora non sei degno di amore”. Questo messaggio non è conservato nei nostri ricordi, nella nostra memoria consapevole, ma è inciso nel nostro inconscio, in una sorta di memoria cellulare. Viviamo condizionati da questo falso pensiero, senza neppure sapere di averlo. Bisogna invece cominciare a credere in se stessi fino in fondo, ad amarci e ad accoglierci a partire proprio dalle nostre imperfezioni. Sono queste che ci impediscono di essere omologati, di essere tutti uguali, di godere della ricchezza infinita del creato.
Per ognuno di noi esiste un sentiero per uscire dal bosco nero dei nostri antichi dolori. Ci vuole forza, fiducia ed arte: bisogna provare senza mai perdere la speranza, altrimenti perderemmo veramente noi stessi. Non è facile, ma si può fare.

"Morire come le allodole assetate sul miraggio
O come la quaglia passato il mare nei primi cespugli
perché di volare non ha più voglia
Ma non vivere di lamento come un cardellino accecato".
Giuseppe Ungaretti, 1914.


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